50° ANNIVERSARIO ASMI (1949-1999)
SESSIONE SCIENTIFICA
Diritti umani e biomedicina
Donazione d’organi e trapianti
Morte cerebrale e certezza di morte
Di Corrado Manni (*)
Donazione d’organi e trapianti, morte cerebrale e
certezza di morte
Prof. Corrado Manni (Presidente dell’Istituto Italiano di Medicina
Sociale)
La morte è un evento che riguarda tutti gli uomini indistintamente
e che ne investe tutti gli aspetti dell’esistenza: psicologici, economici,
sociali, etici e religiosi.
Per ognuno di noi il problema della morte propria e dei propri cari
riguarda soprattutto la sfera esistenziale, tuttavia per il medico esso
riveste anche un interesse scientifico e professionale: egli, infatti,
deve essere in grado non solo di difendere la vita dei propri pazienti,
finché è possibile, ma anche di sapere con certezza quando
questa non c’è più.
Al naturale desiderio dell’uomo di conoscere la natura della morte,
le principali confessioni religiose hanno sempre fornito risposte variabili
nei contenuti, ma che si collocano tutte su un piano trascendente: essa
consiste nella separazione del principio spirituale (anima) del corpo,
e rappresenta il fine ultimo della vita terrena, poiché ne segna
il passaggio alla vita ultraterrena ed eterna.
Ma l’interpretazione trascendente dell’evento morte, proprio perché
tale, non ha il fine di spiegare il meccanismo naturale del suo verificarsi;
ciò è, invece, oggetto della scienza medica.
Per citare le parole di Pio XII: “...spetta al medico il riconoscimento
della morte e del momento esatto della morte”. Per assolvere a tale compito
il medico non può che basarsi su quanto è clinicamente osservabile,
non essendo certamente possibile descrivere sul piano clinico la separazione
dell’anima dal corpo.
La morte coincide con la perdita irreversibile della capacità
di integrare e coordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo. Questa
capacità di integrazione risiede nell’encefalo, che controlla sia
le funzioni vegetative che quelle di relazione e consente all’organismo
di mantenere quell’attività coordinata e finalizzata al proprio
mantenimento che è la vera essenza biologica della vita. Per questo
la morte dell’encefalo equivale a quella della persona e costituisce, anche
ai sensi della vigente legge italiana, il criterio necessario e sufficiente
per la diagnosi di morte.
La morte dell’encefalo, data la sua elevatissima sensibilità
al danno ischemico-anossico, può avvenire in conseguenza di due
eventi fondamentali:
1) Il primo è rappresentato da un arresto cardiaco prolungato
di durata sufficiente a determinare la distruzione irreversibile dell’encefalo;
va tenuto presente che l’arresto dell’attività del cuore è
causata dalla morte dell’organismo, ma non si identifica con essa. Non
sarebbe altrimenti possibile spiegare la sopravvivenza di malati colpiti
da arresto cardiaco grazie alle manovre di rianimazione cardiorespiratoria.
Il fatto è che tali manovre non resuscitano il paziente restituendogli
la vita (malgrado l’ambiguità del termine inglese “resuscitation”
possa far pensare al contrario) bensì gli impediscono di morire,
ripristinando un flusso di sangue ossigenato all’encefalo prima che in
esso si determinino danni irreversibili. Ma in assenza di ripresa dell’attività
cardiaca, dopo venti minuti di arresto cardiaco normo termico, la funzione
dell’encefalo è irrimediabilmente perduta, ed è consentito
dichiarare morto il paziente (criterio cardiaco).
2) Il secondo tipo di evento, assai più raro del precedente,
si verifica quando l’arresto della funzione cerebrale non segue, ma precede
quello della funzione cardiaca, essendo dovuto ad una patologia intracranica
primitiva (trauma cranico, emorragia cerebrale, danno anossico esteso)
che abbia comportato una distruzione globale dell’encefalo; in tali circostanze
la funzione cardiorespiratoria è sostenuta dai trattamenti intensivi
iniziati prima dell’insorgenza della morte dell’encefalo. Ciò spiega
perché tale condizione, detta morte encefalica, è stata osservata
solo in tempi relativamente recenti, dopo l’avvento delle tecniche di terapia
intensiva.
la diagnosi di morte encefalica deve avere due requisiti fondamentali:
da un lato la certezza, essendo chiaramente inammissibile che un soggetto
vivo possa dichiarato erroneamente morto; dall’altro la precocità,
in modo da evitare sia l’inutile prosecuzione di terapie in un paziente
già deceduto, sia l’esecuzione ritardata di un eventuale prelievo
di organi, che rischierebbe di compromettere irreparabilmente la loro funzionalità.
Il primo requisito si basa su alcuni presupposti fondamentali:
- in primo luogo deve essere accertata, senza ombra di dubbio, la lesione
organica e primitiva del SNC, cioè la causa dell’evento: arresto
cardiocircolatorio, trauma cranico, emorragia cerebrale, infarto globale
dell’encefalo, neoplasia cerebrale. Spesso si sottovaluta questa condizione
essenziale;
-in secondo luogo deve essere noto il meccanismo che ha determinato
la necrosi dell’encefalo: lesione ischemico anossica primitiva (arresto
cardiorespiratorio) o secondaria ad ipertensione endocranica (trauma, emorragia...).
-Infine debbono essere escluse le condizioni che possono determinare
una depressione reversibile dell’attività del SNC di intensità
tale da simulare uno stato di morte encefalica, quali: ipotermia, ipotensione,
intossicazione da sostanze neurodeprimenti, gravi disturbi endocrini e
matabolici.
In un paziente che soddisfi questi presupposti, il sospetto di morte
encefalica può essere avanzato quando, in presenza di una lesione
cerebrale organica e primitiva a carico del cervello sicuramente accertata
si rileva:
-assenza di coscienza e di risposta agli stimoli esterni, anche se
intensi;
-atonia muscolare;
-assenza di riflessi del troncoencefalo (fotomotore, corneale, oculovestibolare);
-assenza di risposta motoria nei territori innervati dai nervi cranici;
-apnea;
-assenza di attività elettrica cerebrale attraverso la registrazione
EEG.
Altri segni e sintomi sistemici che confermano il sospetto di morte
encefalica sono:
1) l’instabilità cardiocircolatoria, consiste in riduzione della
pressione arteriosa e della frequenza cardiaca ed aritmie. Essa consegue
all’ischemia nei centri vasomotori del tronco, allo squilibrio idroelettrico
e alla scomparsa dell’azione vasocostrittrice di alcuni ormoni (ormone
antidiuretico, ormoni tiroidei,...);
2) l’ipotermia, ovverosia l’abbassamento della temperatura corporea,
successivo alla perdita della capacità di autoregolazione della
temperatura corporea da parte dell’ipotalamo ed alla notevole dispersione
termica da poliuria.
Tralascio le metodiche prescritte per l’accertamento della morte encefalica
(angiografia cerebrale, scintigrafia cerebrale, la flussimetria Doppler
transcranica, la Spect, perché scenderemmo nel troppo tecnico) e
passo a considerare due definizioni piuttosto controverse: quella della
morte troncoencefalica e quella della morte corticale.
Con il termine morte troncoencefalica viene indicato l’accertamento
della morte effettuato sulla base dell’assenza delle funzioni del solo
troncoencefalo; una distruzione isolata del tronco encefalico può
verificarsi, piuttosto raramente, a seguito di patologie distruttive,
per lo più emorragie acute, a carico di questa struttura. In tali
condizioni l’attività degli emisferi cerebrali può persistere
autonomamente, spesso accompagnata da una certa attività elettroencefalografica,
ma solo per breve tempo (ore o giorni). La denervazione completa degli
emisferi, peraltro, impedisce a qualunque attività nervosa, originatasi
nel loro interno, di manifestarsi: attraverso il tronco cerebrale, infatti,
passano quasi tutte le vie che collegano i centri nervosi superiori con
il resto dell’organismo, incluso il cranio.
Nel Regno Unito, il criterio della morte troncoencefalica è
stato ufficialmente adottato per la diagnosi di morte su base neurologica.
La Comunità scientifica internazionale, non si è finora
allineata con la posizione britannica. In Italia, il Comitato Nazionale
per la Bioetica ha espresso parere negativo, motivandolo con il fatto che
la definizione di morte troncoencefalica comporta due equivoci di fondo:
- il primo deriva dal fatto che nel paziente in morte troncoencefalica
l’assenza della funzione del resto dell’encefalo non è intrinseca,
ma semplicemente dovuta alla mancanza di input dal tronco. Ciò però
non significa che le strutture al di sopra del tronco abbiano per definizione
perso la possibilità di funzionare se stimolate in altro modo; ciò
è già stato verificato clinicamente almeno per quanto riguarda
la percezione di stimoli visivi elementari;
- il secondo equivoco deriva dal fatto che non è giusto equiparare
l’inevitabilità della morte con la morte stessa; la morte del tronco
ha quindi requisiti prognostici, ma non diagnostici, di morte.
Con il termine “morte corticale” si indica invece l’equivalenza tra
assenza dell’attività corticale e morte dell’individuo; in altre
parole, la scomparsa, vera o presunta, delle capacità del paziente
di condurre una vita di relazione, la sua morte sociale sarebbe equiparabile
alla morte fisica. Questo criterio viene da taluni applicato a questi pazienti
che hanno subito gravissime lesioni alle strutture sopratentoriali dell’encefalo,
con sostanziale risparmio del troncoencefalo e che, per tale motivo, si
trovano in una condizione clinica denominata Stato Vegetativo persistente
(PVS), caratterizzata da assenza di funzioni cognitive e con mantenimento
invece di quelle vegetative.
Su questo aspetto il Comitato Nazionale per la Bioetica ha chiaramente
espresso il proprio parere riaffermando che: “non si può condividere
questa opinione poiché, nel paziente in Stato Vegetativo Persistente,
rimanendo integri i centri del paleoencefalo, permangono attive le capacità
di regolazione (centrale) omeostatiche dell’organismo e la capacità
di espletare in modo integrato le funzioni vitali, compresa la respirazione
autonoma”.
Gli elementi fondamentali che differenziano questa condizione rispetto
alla morte sono due: la mancanza di una distruzione totale dell’encefalo
e la non dimostrata irreversibilità. La prognosi dello Stato Vegetativo
Persistente è assai difficile da prevedere, anche se fosse possibile
emettere una prognosi certa di irreversibilità, comunque, non potremmo
definire morta quella persona poiché non possiamo confondere la
riduzione della qualità della vita anche se gravissima e persistente,
con l’assenza della vita. Questa è segnalata non solo dalla perdita
delle funzioni cognitive, ma anche di quelle vegetative (centri regolatori
del respiro, del metabolismo, della termoregolazione, dell’attività
neuroendocrina) sostenute dalle strutture troncoencefaliche.
In conclusione, ci sembra fuor di dubbio che sia le definizioni di
morte troncoencefalica che di morte corticale siano del tutto fuorvianti,
e possano condurre ad un pericoloso astensionismo terapeutico nei confronti
di pazienti, in realtà ancora in vita.
L’inaccettabilità della morte come evento in sé è
un fenomeno ben noto e profondamente radicato nella natura umana. Esso
tuttavia si è particolarmente accentuato nella società occidentale,
dove la progressiva perdita della dimensione trascendente dell’esistenza
ed il prevalere di valori consumistico-produttivistici hanno portato ad
un rifiuto della morte che si evidenzia in molti modi: le allusioni o gli
eufemismi impiegati per evitare di pronunciarne il nome, l’ostracismo nei
confronti dei suoi riti e della sua cultura, l’isolamento psicologico della
famiglia in lutto e, soprattutto, del paziente morente o ritenuto tale.
Tale isolamento accentua notevolmente le sofferenze del paziente e dei
suoi familiari, rendendo ancora più difficile l’accettazione della
morte e delle sue conseguenze.
Questi problemi si accentuano ulteriormente nella morte encefalica:
la discrepanza tra il comune concetto di cadavere come la cultura lo ha
tramandato e l’apparenza di vita del cadavere q cuore battente creano spesso
sconcerto nei familiari del paziente, e rendono ancora più dolorosamente
difficile l’accettazione della realtà della morte.
Ma il rifiuto della morte da parte della Società si riflette
anzitutto sulla figura professionale cui, proprio in virtù di tale
rifiuto, viene delegata la gestione del morente e dei suoi familiari: vale
a dire, l’operatore sanitario. In questi ultimi anni, come è noto,
si è assistito ad una sempre più accentuata medicalizzazione
della morte: la morte asettica ospedaliera, allontana dalla società
il morente e dalla coscienza di chi sopravvive il timore di non aver fatto
abbastanza per il congiunto. Ma questo se da un lato non fa altro che accentuare
l’isolamento di cui morente e familiari sono così spesso fatti oggetto,
dall’altro investe l’operatore sanitario di una responsabilità di
cui non sempre egli è pronto a farsi carico, in quanto, come essere
umano e come membro della società, condivide con essa il rifiuto
della morte e del morire. A ciò si aggiunge anche il senso di personale
frustrazione del curante, il quale può vivere la morte del paziente
come una sconfitta professionale, ed una limitazione delle proprie possibilità
di influire sul divenire della vita, possibilità divenuta particolarmente
rilevante grazie alle tecnologie di cui la medicina dispone, specialmente
in ambito intensivistico; ciò può portare il medico a rifugiarsi
nel tecnicismo che è poi un’altra forma di negazione della morte,
che consente nel vedere i soli aspetti scientifici del caso clinico, negando
il contatto con la psiche del malato, trattando ogni fenomeno del morire
come una complicanza isolata, trattando il corpo come un insieme di organi,
senza prestare attenzione all’uomo che muore. E’ chiaro come questo atteggiamento
sconfini facilmente nell’accanimento terapeutico, e che, nel caso del paziente
in morte encefalica, vuol dire negare la realtà della morte prolungando
la mera sopravvivenza somatica con ogni mezzo.
In una dinamica psicologica di tal genere è indispensabile che
l’operatore sanitario, e particolarmente colui che presta la propria opera
nei centri di rianimazione, venga preparato ad affrontare la morte non
meno dei familiari dei pazienti a lui affidati, per evitare le conseguenze
che il contatto con essa può avvenire sulla propria capacità
di affrontarla; e non c’è dubbio che il presupposto fondamentale
perché ciò avvenga, sia la comprensione approfondita del
fenomeno morte nei suoi presupposti fisiopatologici e diagnostici, sia
nei suoi risvolti psico-sociali ed etici. Tale obiettivo non può
essere raggiunto con iniziative sporadiche, ma solo attraverso l’inclusione
nel curriculum formativo degli operatori sanitari di corsi appositi, aventi
pari dignità delle altre discipline tradizionali.
Solo un’accettazione radicata e convinta del fenomeno morte nel proprio
vissuto umano e professionale può mettere l’operatore sanitario
nelle condizioni di aiutare il paziente ed i suoi familiari a viverla e
comprenderla nel modo corretto.
(*) Presidente Istituto Italiano di Medicina Sociale
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La sessione istituzionale
del 50° Anniversario ASMI (pubblicata sul n. 1/2000)
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