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50° ANNIVERSARIO ASMI (1949-1999)

SESSIONE SCIENTIFICA

Diritti umani e biomedicina
 


Comitati etici 
e sperimentazione clinica 

di Aldo Isidori(*)


 

Le mie credenziali per essere oggi tra voi credo siano, oltre la benevolenza e l’amicizia di Mario Bernardini e Ugo Apollonio, quelle di rappresentare le due facce del problema, essendo io un clinico, professore alla Sapienza, ma anche, come è stato ora ricordato, un modesto operatore della bioetica, avendo fatto parte del Comitato Nazionale per due mandati ed essendo attualmente Presidente del Comitato Etico del Policlinico, che è l’ospedale più grande - ahimè forse anche un po’ disastrato - d’Italia. 
Ho vissuto sulla mia pelle il contrasto, molto spesso lacerante, tra l’entusiasmo del ricercatore nei confronti dei successi della scienza e il timore di quello che le applicazioni di questi progressi potessero comportare sul piano umano, per la dignità della vita di ciascuno di noi e, soprattutto, delle generazioni future. In un primo momento ci sono mancati gli strumenti per valutare questi progressi, che hanno invaso campi fino ad oggi assolutamente inesplorati; basti pensare alla procreazione assistita, alla clonazione, agli interventi sul genoma. Che cosa ci è stato necessario? Una serie di normative, di puntelli, di paletti attraverso cui guidare il nostro ragionamento bioetico e, soprattutto, la prassi nella vita operativa quotidiana del clinico e del ricercatore. Ed è di ricerca che oggi vi devo parlare. 
La ricerca, di per sé, è indispensabile a qualsiasi progresso dello scibile umano. La ricerca pura non è sindacabile dal punto di vista etico, perché il sapere non può essere etico o non etico, esso è sempre un fatto positivo; la ricerca applicata, viceversa, avendo impatto diretto sulla persona e sulla personalità dei soggetti, deve essere regolamentata in base ai princìpi della nostra coscienza, ovviamente, ma tenendo anche conto di quelli dell’applicazione pratica.
Fornirò qualche dato tecnico sull’attuale situazione normativa in questo campo, anche se può apparire strano parlare di norme in un campo così etereo e sofisticato come quello della bioetica.
Possiamo fare riferimento in partenza alla Convenzione che tutela i diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazione della biologia e della medicina, che fa parte della Convenzione sui diritti dell’uomo del ‘96. Poi ne sono seguite anche altre, ma questa è la più completa e rappresenta la sintesi e l’evoluzione delle precedenti convenzioni, a partire da quella di Norimberga e poi di Helsinki, con tutte le successive modificazioni.
La convenzione all’art. 2, “proprietà dell’essere umano”, così recita: “L’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sull’interesse della società della scienza”. Torna quindi il discorso della ricerca pura che, come vedete, tanto pura può non essere. È ovvio che però il campo più interessante di applicazione di questi princìpi è la ricerca applicata e soprattutto la ricerca farmacologica. Il prof. Cavicchi in questo campo ha già indicato le sue direttive ed espresso le sue opinioni. 
All’art. 16 si dice che “nessuna ricerca può essere intrapresa su un soggetto, a meno che non siano rispettate le seguenti condizioni: non esista modo alternativo, i rischi non siano sproporzionati nei confronti dei benefìci (bilancio rischi/benefici); il progetto di ricerca sia stato approvato dall’organismo competente; il soggetto che si presta sia informato dei diritti e delle garanzie e vi sia un consenso”. Tutti questi aspetti li prenderemo in considerazione, sia pure in maniera necessariamente breve. 
Per motivi soprattutto operativi e di prassi, ricordo le quattro fasi di sperimentazione di un farmaco: farmaconetica; screening di attività; efficacia e capacità di raggiungere l’obiettivo; farmacovigilanza. È chiaro che la seconda e la terza fase sono orientate soprattutto al paziente, ed è a questi livelli che si pone il problema della protezione dei soggetti sottoposti a sperimentazione. In relazione agli aspetti indicati, farò rimarcare le sole richieste di garanzia etica. 
Nella prima fase, che riguarda i soggetti sani, si richiede: l’informazione, il consenso, che il tipo di farmaco non sia rischioso, l’adeguazione delle strutture e del personale. Ed ecco che compare per la prima volta il Comitato etico, su cui torneremo. Nella fase due e tre, a parte le specificazioni tecniche che non ci interessano in questa sede, vi sono altre salvaguardie di tipo etico: l’esame della documentazione, che l’obiettivo sia significativo, che vi sia un adeguato trattamento di controllo, che sia valutato il disegno sperimentale. Come salvaguardia esterna c’è il consenso informato, e ancora, di nuovo e sempre il Comitato etico, che è la figura centrale per quanto attiene la salvaguardia. L’ultima fase è quella di farmacovigilanza, interessa il momento in cui il farmaco è già in commercio e le richieste di garanzia etica sono: riconoscimento e comunicazione, riservatezza dei dati, trasferimento dell’informazione all’esterno. E di nuovo come garanzia esterna il Comitato etico e la collaborazione sul territorio, che molto spesso è invece trascurata.
Il Comitato etico è stato ripetutamente citato come elemento centrale della salvaguardia etica. La regolamentazione dei comitati etici ha avuto un penoso cammino nel corso degli ultimi anni, ed è stata infine recepita anche in Italia dall’ordinamento legislativo. In sostanza, la prassi è che, attraverso una serie di normative di legge, si valutano i protocolli sperimentali che devono essere applicati alla valutazione di un farmaco. Inoltre, si debbono anche salvaguardare gli aspetti etici della sperimentazione clinica vera e propria, non con riferimento ad un farmaco nuovo o all’uso di nuovi farmaci, ma a provvedimenti terapeutici, chirurgici o diagnostici che non siano “sponsorizzati”, cioè che non riguardino un farmaco vero e proprio.
I criteri di valutazione etica di un protocollo sono indicati dal Comitato di bioetica dell’istituzione (ogni istituzione deve avere il suo Comitato etico) e riguardano la finalità, e quindi la salvaguardia del bene del paziente, la migliore terapia possibile, il minore disagio possibile, l’utilità personale o pubblica (tenendo presente quello che ho già detto a proposito del Consiglio d’Europa), la scientificità e quindi la correttezza delle ipotesi, il disegno sperimentale, la tecnica metodologica, la trasparenza - tutte cose che sono state “normate” dalla disposizione sulla good clinical practice, cioè sulla buona pratica critica -; la salvaguardia della collettività per quanto riguarda vaccini, radiofarmaci, terapia genica, ecc.; inoltre l’allocazione delle risorse, citata poco fa dal dott. Cavicchi, cioè se vale la pena di affrontare una spesa per sperimentare qualche cosa che poi magari non serve, quando invece può essere più opportuno allocare le stesse risorse nella ricerca sul cancro o sull’AIDS.
Il Comitato etico deve prendere in considerazione l’adeguatezza del protocollo in rapporto agli obiettivi dello studio, la sua validità scientifica - anche questo è importante, perché se non c’è una giustificazione scientifica a una sperimentazione, viene meno l’aspetto dell’etica, dovendosi inutilmente impegnare risorse e mettere a rischio pazienti -; la possibilità di arrivare a conclusioni fondate con la minima esposizione dei soggetti.
Quanto al placebo, il suo uso costituisce un grosso problema. In realtà i problemi sono fondamentalmente due, oltre a quello della scientificità e del poco rischio per il paziente; si tratta cioè di sottoporre una categoria di pazienti a un trattamento sicuramente inefficace, con farmaci o sostanze inefficaci, effettuando un confronto ed un controllo paralleli con chi invece sperimenta il farmaco vero e proprio. 
Sul placebo se ne sono dette tante, ed una corrente di pensiero è contraria, mentre un’altra è favorevole. Nel ’92 il Comitato di bioetica così si espresse: “L’uso del placebo è consentito quando un trattamento nuovo si aggiunga ad uno consolidato; in questo caso non vi è alcun problema etico nel somministrare placebo, che viene aggiunto alla miglior terapia disponibile al solo scopo di allontanare le componenti distorcenti, cioè il “bios”, dal paziente, dal medico e dalla loro interazione. È più etico dare un placebo che un trattamento non provato; quest’ultimo, infatti, può offuscare i risultati e indebolire il dato statistico”.
In sostanza, anche se oggi c’è una tendenza ad evitare l’uso del placebo, sotto queste fattispecie può essere ancora consentito. Per la verità, nel Comitato di bioetica che io presiedo cerchiamo di approvarlo sempre di meno.
L’altro aspetto importante è il consenso informato. Anche questo argomento potrebbe prevedere, ha previsto e prevede simposi di intere giornate. Vi riassumo brevemente i presupposti: il primato della beneficialità a favore del paziente, ispirato a scienza e coscienza, e la volontà non delegabile del paziente. Condizioni qualificanti sono la qualità della comunicazione e dell’informazione onesta da parte del medico sperimentatore, che non deve plagiare e influenzare il paziente, la comprensione di quello che viene detto e, ovviamente, la libertà e la capacità decisionale del paziente, che in realtà molto spesso è delegata ad altri, a colui che viene chiamato il legale rappresentante, il quale parimenti deve essere in grado di non farsi plagiare da ciò che il medico deve dire in buona fede.
L’argomento è talmente vasto che lo si potrebbe trattare per ore. Concludo invece con una considerazione di carattere generale sulla ricerca e con una riflessione sulla bioetica, ponendo preliminarmente alcune domande. È lecito fare tutto ciò che è possibile fare? Il fine giustifica i mezzi? È lecito sacrificare le esigenze individuali a quelle collettive? Le mie risposte saranno alcune di tipo confessionale ed altre no.
Giovanni Paolo II ha affermato che l’uomo può perire per effetto della tecnica che egli stesso sviluppa, non della verità che egli scopre mediante la ricerca scientifica. Mi sembra sia questo concetto che ci deve sempre guidare nel nostro quotidiano lavoro di ricercatori. Il Consiglio d’Europa sostiene che l’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sull’interesse della società e della ricerca. Infine, il Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica ha espresso la convinzione che sia “necessario affrettare la crescita di una coscienza collettiva e la formulazione di alcune regole basilari sul rapporto tra le tecnologie biomediche e la società umana, altrimenti le tecnologie saranno usate per calpestare la nostra dignità e la società e saranno alla mercé di manipolazioni della nostra specie”. È questo che tutti noi dobbiamo evitare.

(*) Presidente Comitato Etico Policlinico Umberto I°
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La sessione istituzionale del 50° Anniversario ASMI (pubblicata sul n. 1/2000)

Sommario del n. 2/2000


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