Mettiamo a fuoco
di Carlo Vetere
COMPLICAZIONI NELL'EUTANASIA LEGALIZZATA
E NEL SUICIDIO ASSISTITO
Malgrado la notevole diffusione di informazioni su
quanto avviene in Olanda e nello Stato USA dell'Oregon raramente sulla
stampa medica si è riferito in merito alle complicanze che possono
aver luogo a causa o durante gli atti medici finalizzati al suicidio assistito
od all'eutanasia.
La lacuna viene colmata da un gruppo di ricercatori del Dipartimento
di Sanità Pubblica dell'Università Erasmus di Rottendam che
hanno compiuto una ricerca nel periodo 1990-1991 e successivamente con
i medesimi questionari nel 1995-1996 per un totale di 649 casi. In prevalenza
i medici interessati erano medici di base, una cinquantina lavoravano in
Residenze per anziani ed il resto erano specialisti in varie branche mediche.
Solo il 9% dei medici che avevano ottenuto l'autorizzazione ha rifiutato
di rispondere e per tutti gli altri vi è stato un colloquio-intervista
di 2,5 ore.Naturalmente non si è raggiunto l'universo dei medici
che effettivamente avevano praticato eutanasia e per tale motivo i dati
ricavati sono sottostimati.
Comunque si è provveduto a differenziare la casistica a seconda
che l'intervento medico fosse stato richiesto per l'eutanasia oppure per
il suicidio assistito; la differenziazione si è basata sulla somministrazione
del farmaco.
Il requisito per l'inclusione nella casistica del suicidio assistito
è stato quello che il paziente si è auto-somministrato il
farmaco letale.
Ma la distinzione poi non è stata così netta proprio
perché sono sorte difficoltà nell'autosomministrazione del
farmaco o il paziente si è risvegliato dal coma e ha vomitato dopo
aver preso le pasticche.
Praticamente il problema clinico più importante è stato
quello di un intervallo più prolungato fra la somministrazione,
il coma ed il decesso, rispetto a quello atteso e spesso comunicato al
paziente e/o ai familiari.
In 21 casi su 114 di suicidio assistito il medico è dovuto intervenire
malgrado che l'intenzione iniziale fosse quella che il paziente agisse
da solo.
Praticamente si è trattato di un fallimento della procedura
programmata.
Diverso è il caso della difficoltà di reperimento di
una vena in quanto in queste situazioni si è modificato il piano
ed usata altra via di somministrazione.
Non viene riferito se in caso di insuccesso il paziente abbia deciso
di non eseguire il programma, come invece è avvenuto nell'Oregon.Invece
si mette in evidenza come il medico pone la dose nel cavo orale in pazienti
che non riescono ad inghiottire la dose letale; in questo caso dal punto
di vista giudiziario diventa difficile passare dal suicidio assistito all'eutanasia.
Chiaramente la maggioranza dei medici italiani, che
non accettano il ruolo del medico nell'eutanasia e sopratutto nel suicidio
assistito, farà tesoro di queste informazioni.
Coloro che invece sostengono la tesi della "dolce morte" sosterranno
che è necessario fare in modo che il medico conosca la fisiopatologia
del paziente terminale ed abbia la capacità di prescrivere cure
palliative.
Sembra che il "rumore" intorno al suicidio assistito abbia determinato
un atteggiamento più aperto nelle prescrizioni di antidolorifici
come dimostrato da diverse statistiche sui consumi di morfina.
Che questo sia il caso dell'Italia non risulta dalle statistiche dell'Ufficio
Centrale Stupefacenti.
Comunque in Olanda si sottolinea come:
1)-Molti medici mancano di conoscenze di base e soprattutto
non seguono le indicazioni di apposite commissioni farmacologiche.
Queste mancanze possono provocare sofferenze non previste dal paziente
e dai suoi familiari ed è appena il caso di rilevare come sia traumatizzante
per i familiari che avevano appoggiato la richiesta di "dolce morte".
2)-Il medico dovrebbe essere presente anche se non attivo. Se non intende
assistere dovrebbe essere reperibile in caso di complicanze.
3)-Le complicanze sono più frequenti nei casi di suicidio assistito;
l'insuccesso dei tentativi è stato segnalato nel 15% dei casi di
pazienti oncologici terminali, mentre appare strano che nella casistica
americana vengano a mancare
segnalazioni di complicazioni che hanno determinato sofferenze evitabili.
Le indagini condotte fra i medici dell'Oregon nei primi anni di applicazione
della famosa Legge risulta che il 5% dei 2649 sanitari che hanno accettato
di rispondere (il 65% di quelli registrati) ha ricevuto 221 richieste:
il campione anche in questo caso è sottostimato ma comunque il campione
può essere significativo in quanto:
-Il 67% dei pazienti che hanno richiesto prescrizioni per dosi letali
erano malati di cancro
-il 18% erano affetti da grave insufficienza cardio-respiratoria
-Il 9% aveva forme neurologiche sistemiche e progressive
-Il 3% era malato di AIDS terminale.
Il motivo principale (57% dei casi) è stata la perdita di indipendenza,seguita
a ruota dalla bassa qualità della vita,dal sentirsi pronto a finire
i propri giorni e nel 53% da voler controllare le circostanze del proprio
decesso. Molti di questi motivi si sovrappongono (perdita della dignità,
incapacità a svolgere gli atti della vita quotidiana, incapacità
a svolgere attività piacevoli. Percentualmente,invece il desiderio
di volere morire nella propria abitazione è stato espresso solo
dal 28% mentre come motivo il dissesto finanziario è stato presente
nell'11%.
Più interessante appare l'elenco delle sindromi obiettivabili
in quanto il dolore fisico,quello cioè più temuto da tutti
è stato indicato nel 43%, l'astenia nel 31%, la dispnea nel
27%,l'incontinenza nel 19%, la nausea nell'8% e la presenza di confusione
mentale nel 22% (in realtà quest'ultimo sintomo obiettivabile avrebbe
dovuto escludere il paziente non cosciente dal programma).
Il dato più interessante della serie americana
è che allorquando il medico al quale era stata avanzata la richiesta
ha messo in atto un piano terapeutico "terminale" più idoneo, ivi
compresa la prescrizione di antidepressivi, o è riuscito ad ottenere
l'ammissione in un Hospice, in quasi la metà dei casi il paziente
ha cambiato parere e si è accontentato delle misure palliative impostate
dal medico.
Passando l'Atlantico e tornando in Olanda i farmaci
più utilizzati sono stati i rilassanti neuromuscolari quasi come
forma di preanalgesia nei casi di eutanasia mentre fra coloro che avevano
richiesto il suicidio assistito la prescrizione di barbiturici è
stata la prima in lista (71%). Il cloruro di Potassio al contrario delle
informazioni giornalistiche è stato utilizzato solo nel 2% dei casi
di eutanasia.
Confrontando le due esperienze pur nella limitatezza dei dati presentati
si può constatare:
1)-I medici dell'Oregon solo in un caso su sei hanno aderito
alle richieste di una prescrizione "letale"; di fatto solo 1 su 10 di questi
pazienti hanno posto fine ai propri giorni.
2)-I medici olandesi hanno una minore tendenza ad esaminare a fondo
la possibilità di rivedere il piano assistenziale per un paziente
terminale come forma più che di dissuasione dallo atto suicidale
di miglioramento della qualità della vita. Forse perchè in
quel Paese si è ormai creata una cultura relativa all'accettazione
delle richieste di eutanasia e di suicidio assistito e l'atteggiamento
della Magistratura è molto "elastico" purché vengano seguite
le procedure del consulto e dell'esclusione di manifestazioni di malattia
mentale.
3)-In entrambi i Paesi il medico tende a rimanere accanto al paziente
nei casi di eutanasia anche per svolgere la funzione di pronto intervento
nei dosaggi e nelle misure mediche atte ad evitare complicazioni e sofferenze.
Tuttavia queste ultime si verificano e forse non sempre sono notificate
dai medici.Sarebbe opportuno che l'informazione in merito alla possibilità
che il piano non funzioni venga diffuso nei mass media.
4)-Non è vero che il dolore incoercibile costituisca il primo
motivo della richiesta: prevale,invece, il senso di inutilità della
propria esistenza, della perdita di dignità e della umiliazione
legata alla totale non autosufficienza.Sono tutti fattori più che
comprensibili ma anche correggibili nel senso di una programmazione aggiornata
dei piani di assistenza, di informazione del paziente e dei suoi familiari
di
impiego di tecniche di supporto sociale.
Tutti lamentano che il medico non sia preparato ad assistere
un paziente morente o meglio che non conosca i meccanismi fisiopatologici
della parte terminale della vita. Questo è senza altro abbastanza
vero e riguarda sopratutto i medici di base in quanto gli specialisti sono
più responsabili di atti nell’arco "pieno" della vita. Senza ricorrere
alla retorica del vecchio medico di campagna che sapeva confortare oltre
che curare è bene che elementi di assistenza psico-sociale e di
promozione della salute anche in condizioni estreme siano diffusi e discussi
come forma di aggiornamento permanente.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
Groenewoud JH et al:New Engl J.Med 342:551-6,2.000
GanziniL.et al: New Engl J Med 342:557-63,2.000 |